L’altare rupestre di Santo Stefano e la Dea Madre

di Ilaria Montis

Il complesso delle diverse pietre istoriate dell’“altare rupestre” di Santo Stefano, presso la chiesetta campestre di Santo Stefano a Oschiri, è uno dei più grandi rompicapi dell’archeologia sarda.

Il mistero è accentuato dal fatto che nel sito non sono mai state compiute vere e proprie ricerche archeologiche, oltre a una semplice osservazione dei monumenti che insistono nell’area.

Attualmente la guida più completa ai monumenti che si trovano nel sito è la guida di Giacomo Calvia, intitolata appunto “Guida all’altare rupestre di Santo Stefano, pietre custodi di dubbi” edito dalla Delfino Editore, a cui vi rimandiamo per un’accurata descrizione del sito.

In questo articolo non ci soffermeremo dunque sulla meticolosa descrizione delle nicchie, delle forme dei simboli dell’altare e delle altre pietre. Quello che invece vorrei fare è dare una lettura che metta in evidenza gli elementi che possono essere ricollegati al culto della Dea Madre, o Grande Dea, o semplicemente Dea, la prima forma di “monoteismo” nella storia della Spiritualità.

Prima vorrei premettere una cosa importante. L’area sacra di Santo Stefano è un complesso cultuale articolato e pluristratificato (ovvero utilizzato in diverse epoche, caratterizzate da diverse concezioni spirituali-religiose, ognuna delle quali ha lasciato segni indelebili e non sempre facilmente districabili).

Quindi ogni tentativo di spiegazione e semplificazione che pretenda di spiegare e interpretare ogni cosa è del tutto vano e illusorio. Dobbiamo accontentarci, come spesso capita in archeologia, di fare le nostre osservazioni, il più possibile sensate e ancorate alla realtà oggettiva, ma prive dalla pretesa di poter comprendere tutto. Bene. Addentriamoci nel vivo dell’argomento.

L’alta antichità della frequentazione di Santo Stefano è dimostrata senza ombra di dubbio dalle diverse domus de janas presenti nel sito, che ci portano almeno al Neolitico Recente, quindi agli ultimi secoli del IV millennio a.C.

Le domus de janas ci testimoniano la presenza di un’area riservata alle sepolture ma come sappiamo dai simboli delle domus de janas e dalla presenza di aree che sembrano adibite a ospitare vari tipi di pratiche rituali e cerimoniali da tanti altri siti in tutta la Sardegna, è probabile che oltre alla connotazione funeraria, già da quest’epoca il sito di Santo Stefano avesse altre funzioni rituali/cultuali/cerimoniali.

Nelle aree sacre dove si deponevano i defunti nel grembo della Grande Madre identificata anche con la Terra, si celebrava in questo modo anche la rinascita, e quindi l’intero ciclo della Vita.

Molti segni che la devozione di secoli di fedeli hanno lasciato nelle pietre dell’area sacra di Santo Stefano sono difficilmente databili. Anche se un occhio attento può riconoscere senza troppa difficoltà diversi “strati” senza peraltro avere la certezza della sequenza in cui collocarli e ancor meno della datazione. Ma il fatto che numerosi di essi si riferiscano in modo inequivocabile a culti precristiani è palese e non può essere negato.

Uno di questi è la rappresentazione di un fallo in bassorilievo entro una campitura rettangolare. Il fallo rappresenta chiaramente il principio maschile, da tempi antichissimi riconosciuto come indispensabile alla creazione della vita.

Oltre a questo manufatto, esiste un’altra roccia a Santo Stefano che a mio parere non ha attirato abbastanza l’attenzione degli studiosi. Il motivo è che tale roccia sarebbe “naturale” come tante altre forme curiose presenti nel sito che facilmente scatenano la fantasia.

Che la roccia sia completamente naturale, ovvero interamente opera della natura, o un’opera della natura nella quale è intervenuta la mano dell’uomo… per me la cosa non cambia affatto se guardiamo ciò che essa rappresenta con estremo naturalismo e chiarezza, ovvero i genitali femminili e la cavità uterina.

È davvero impensabile che se anche la roccia fosse interamente naturale agli antichi fosse sfuggita questa somiglianza. Tuttavia a un esame attento sembra molto probabile un intervento almeno parziale della mano umana. Ritengo quindi che ci siano fondati motivi per pensare che davanti a questa roccia potessero avvenire rituali, cerimonie, legati alla fertilità femminile. O almeno una forma di devozione del principio femminile poteva esprimersi in questo punto, luogo che Giorgio Pala, massimo conoscitore del sito di Santo Stefano, non manca mai di far osservare ai visitatori.

Ma c’è di più.. e qui veniamo al celebre altare. Come è noto l’ “altare” è caratterizzato da una serie di profonde nicchie di forma geometrica scavate nella roccia, alcune sormontate o circondate da coppelline. La percezione visiva dell’insieme del monumento è ora falsata dalla presenza di un leccio secolare. Ma nonostante ciò si nota che alcune figure sembrano comunque avere un certo rilievo rispetto alle altre, e sono sottolineate dalla presenza delle coppelle.

Tre triangoli vicini tra loro sono sormontati sui lati superiori dalle coppelle, il triangolo centrale è anche il più grande ed è collegato a un triangolo inferiore a cui si sovrappone senza soluzione di continuità. La profondità della nicchia superiore, e la presenza di due incavi appena sotto alla base hanno dato adito a una curiosa e affascinante interpretazione che io mi sento di accogliere, sempre ribadendo che di certo al 100% non c’è nulla.

Le due nicchie sarebbero un seggio scavato nella roccia, una sorta di trono, in posizione elevata, ma non un seggio-trono qualsiasi, bensì il seggio della “partoriente”. È stato notato e verificato empiricamente che sedendosi all’interno della nicchia e sistemando i piedi negli appositi incavi la persona seduta assume proprio la posizione di una partoriente, il tutto ampiamente confermato anche da ginecologi, se ce ne fosse bisogno.

Foto web: Giorgo Pala mostra il “seggio della partoriente”

Si potrebbe parlare a lungo ipotizzando rituali o cerimonie celebrative di alcune nascite speciali, reali (figli di sacerdotesse? Di donne illustri?) o simboliche (rappresentazione simbolica del miracolo della nascita, magari in occasione di alcune ricorrenze legate al calendario?), non lo sapremo mai. Quello che sappiamo è che il “dare la vita” è una prerogativa della Grande Dea, oltre che ovviamente della donna, manifestazione terrena della divinità creatrice, del principio femminile. La Grande Dea del Neolitico infatti viene anche rappresentata come partoriente in alcune celebri raffigurazioni, una fra tutte la splendida statuina da Chatal Huyuk (Turchia).

Immaginare l’”altare” di Santo Stefano come un monumento dove si celebravano rituali legati alla nascita è molto suggestivo nonché sensato. Non dimentichiamo che diversi simboli presenti nelle rocce circostanti sono invece stati interpretati come legati alla morte (ad esempio il letto, forse funebre, scavato nella roccia; quella che sembra una falsa porta).

La compresenza di nascita e morte, in una visione ciclica in cui questi due aspetti sono intimamente connessi nella celebrazione dell’eterno ciclo della vita ci riporta a un passato remoto, ci riporta al Neolitico e al culto della Dea. La sacralità del luogo tuttavia si è mantenuta intatta per millenni se ancora oggi abbiamo proprio davanti a questa roccia scolpita, la chiesetta cristiana, intitolata tra l’altro a Santo Stefano, primo martire, a testimonianza di una probabile alta antichità del primo luogo di culto cristiano.

Dire di più non è possibile, ma per concludere vorrei aggiungere che sebbene unico nella sua eccezionalità, il sito di Santo Stefano è forse meno unico di quello che si pensa comunemente. Da diverse parti della Sardegna emergono notizie di siti “rupestri” con rocce istoriate e diversi simboli, alcuni dei quali sono stati devastati dagli scavatori clandestini, o da riusi delle aree interessate, ma accomunati dal fatto di non essere mai stati studiati e indagati archeologicamente e alcuni dei quali completamente inediti. Spero che presto ne sapremo qualcosa in più :)

Visiteremo insieme questo misterioso sito nel VIAGGIO SULLE TRACCE DELLA DEA DAL 30 MAGGIO AL 2 GIUGNO 2020

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